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Messico-9.Valladolid, Merida, Villahermosa, Veracruz, Tampico, Xilitla, San Luis Potosi', Real de Catorce

 

25.7

Dopo quasi un mese salgo sul traghetto che da Isla Muejeres mi riporta a Cancun.
Nei giorni che ho passato sull'isola non facendo quasi niente tranne andare in spiaggia o fumare joint seduto su una panchina del lungomare, disegnare qualcosa, scrivere una storia insensata e cucinarmi spaghetti a tutti I gusti piu' uno, non sono mai tornato a Cancun.
Volevo andarci per informarmi su Cuba, da qui I prezzi dei voli sono piuttosto bassi, ma alla fine ho rinunciato.
Da giugno Cuba vuole che gli stranieri viaggino con un'assicurazione medica obbligatoria e sarebbe stata una palla e una spesa in piu'.
Volevo andarci anche perche' dal Guatemala mi erano rimasti dei dollari ma poi ho imparato che a Cuba il cambio del dollaro e' tassato il 20% in piu' delle altre monete, per un totale se ho capito bene del 30% di commissione.
Mi ha fatto sorridere ma ha reso I miei dollari inservibili.
Se penso comunque che stando quasi due mesi da queste parti e non essendo mai andato a nuotare con gli squali balena (I pesci piu' grandi del mondo), mi rendo conto di non aver fatto entrambe le cose, Cuba e squali balena, per assoluta pigrizia.
Non e' un giudizio su me stesso, constato soltanto che per molto tempo sono stato capace di non fare niente (e dio se c'e', abbia piu' compassione ancora verso chi invece non ne' capace, per chi deve star sempre in corsa).
E' per questo che gia' sulla nave so che la malinconia che arriva con la pioggia mentre lascio Isla Mujeres, si trasformera' in febbre insensata di movimento appena saliro' sull'autobus che mi portera' a Valladolid.
Adesso, non so perche', e' molto piu' importante andare che viaggiare.
Voglio fare chilometri verso nord, toccando e fuggendo, il contrario di quanto dovrebbe fare un viaggiatore che si rispetti.
Se potessi, farei il giro del mondo in un minuto.

VALLADOLID

A Valladolid sto piu' o meno una mezza giornata, vedo la bella piazza con la cattedrale, le case color pastello infuocate dal sole dello Yucatan, e faccio un salto a vedere il cenote Zaci.
I cenotes, sparsi per tutto lo stato, sono delle grandi pozze d'acqua sotterranee, quasi dentro a delle grotte da cui scendono stalattiti, spesso piene di pesci e uccelli.
Molti turisti fanno il bagno nei cenotes, io non l'ho mai fatto.
Se penso che non l'ho nemmeno mai fatto nei laghi del Guatemala, posso solo pensare che c'e' qualcosa che non mi affascina nelle acque ferme, senza onde, senza l'acqua che va insomma.
Dormo in un albergo che e' stato bombardato dagli anni, su un letto cosi' scomodo che non posso dimenticarlo e il giorno dopo sono pronto per salire su un altro autobus.

MERIDA

A Merida, capitale dello Yucatan, ero gia' stato tre anni fa, quando l'avevo usata come base per andare a Chichen Itza', uno dei siti maya certamente piu' belli del Messico.
Stavolta mi ci fermo giusto un giorno, perche' da qui partono autobus in tutte le direzioni.
E' comunque una splendida citta' molto viva, con una bellissima atmosfera.
Qui mi viene in mente anche che tempo fa ho letto il significato della parola Yucatan: "Il nome della provincia dello Yucatàn, simbolo per noi di esotismo indiano e di lontana autenticità, è in realtà il simbolo dei malintesi che regnavano allora. Alle esclamazioni dei primi spagnoli sbarcati sulla penisola, i maya rispondono: MA C'UBAH THAN (non comprendiamo le vostre parole). Gli spagnoli capiscono YUCATAN e decidono che deve trattarsi del nome della provincia. " Tvetan Todorov, LA CONQUISTA DELL'AMERICA

Alla sera bevo birre e ceno in un ristorante sulla piazza principale, e' lunedi' e quindi come di consueto una parte della strada viene chiusa perche' c'e' uno spettacolo di danze e musica maya.
In realta' vedo solo le ballerine, che sono delle modelle che poco sembra abbiano a che fare con le donne maya, alte di solito poco piu' di un metro.
Dello spettacolo non vedo nulla perche' anche se non e' nel mio stile per circostanze casuali sto dopocenando con una massaggiatrice, lei beve birre, io bevo un anis locale, ottimo e verde, e anche Merida e' solo una tappa verso nord.

VILLAHERMOSA

Spezzo il viaggio fermandomi a Villahermosa, a circa 9 ore da Veracruz, che e' il primo posto in cui mi interessa fermarmi qualche giorno.
Qui di turisti non se ne vedono molti, il tassista che mi porta in centro stenta a credere che sia qui in vacanza, e insinua con naturalezza che non gli voglia dire I reali motivi per cui sono in citta'.
Villahermosa non e' indimenticabile, c'e' il bel caos messicano delle strade pedonali, dei discreti bar sul lungofiume, e musica a palla un po' dappertutto.
E come in quasi tutto il Messico, un numero che ha dell'incredibile di negozi di scarpe.
Uno attaccato all'altro, e dappertutto.
Mai in vita mia ho visto cosi' tante farmacie e cosi' tanti negozi di scarpe come in Messico.
Faccio un salto a vedere lo strano zoo pieno di belle sculture precolombiane, in cui sono state ricreate diverse tipologie di giungla, guardo delle scimmie ragno e una pantera nera e mi chiedo come mai un colore cosi' strano ed intenso sia stato premiato dall'evoluzione.
Lo zoo, sul lungofiume, non sarebbe neanche male, e' pero' il posto piu' pieno di zanzare dove sono mai stato.
Impressionante.Sciami, nugoli, eserciti di zanzare.

VERACRUZ

Veracruz e' una favolosa citta' che sembra sempre in festa.Porto petrolifero, sede della Marina, la sua storia e' fatta di assedi alle mura, blocchi navali, cannonate che dal mare arrivavano a distruggere la citta'.
Tra l'annessione del Texas, e la conquista forzata della California, l'Arizona e il New Mexico, gli americani hanno preso al Messico poco piu' di un un secolo fa, quasi 2,4 milioni di chilometri quadrati.
Finche' non guardo una cartina esplicativa al Museo Histórico Naval, con le sue esposizioni di armi, modellini di navi e bandiere pirata, non mi rendo conto che prima il Messsico era grande praticamente il doppio di com'e' ora.

La sera in cui arrivo, nella piazza principale che brulica di venditori di occhiali di Prada, profumi Versace, sigari e tarocchi Ferrari, c'e' sul palco centrale un'orchestra evidentemente della Marina, saranno un centinaio di persone vestite come Ufficiale e Gentiluomo, che suona musica classica mentre attorno Veracruz esplode di grida, rumori, palloncini, assurdita' e Messico.
Mi e' piaciuta molto Veracruz, tanto che per qualche momento ho pure pensato che e' un posto in cui potrei vivere per qualche tempo.
Non ora certamente, ma ha un fascino molto forte, delle spiagge cittadine forse non favolose e nel weekend tragicamente affollate, ma raggiungibili in pochi minuti, e belle strade, bellissimi bar, librerie, e ovviamente un negozio di scarpe ogni cinquanta metri.

Vado  all'acquario, evitando l'inesplicabile e attiguo Museo delle Cere, con una lunga passeggiata sul lungomare.
Si potrebbe (e sulle prime ne avevo intenzione) calarsi in una gabbia nella vasca degli squali e dargli da mangiare ma alla fine non lo faccio perche' la gabbia e' in realta' un enorme parallelepipedo di plexiglass, per sicurezza evidentemente, e quindi non lo trovo piu' cosi' affascinante.
Ho visto acquari piu' belli ma anche quello di Veracruz vale la pena, coi suoi pesci strani, meduse luminose e una grande piscina dove nuotano i delfini.
La cosa che pero' piu' mi colpisce sono I Manati', creature dall'aspetto imponente, simili a trichechi-balene-leoni marini e animali dei cartoni animati.
Si muovono a trottola, e originariamente devono essere stati disegnati da Walt Disney durante un'esperienza con l' LSD.

TAMPICO

Anche Tampico e' solo un'altra tappa per spezzare il viaggio, anche se mi riserva una bella cantina, una discreta piazza e uno strambo parco che sembra andare alla deriva sulla laguna in cui, avvertono I cartelli, nuotano dei coccodrilli.
Ma sopratutto mi piace essere tornato a nord, il nord dell'orgoglio nazionale, dove le persone non hanno ancora dimenticato che gli americani gli hanno rubato quasi 2,4 milioni di chilomeri quadrati di territorio, dove la gente e' solo in apparenza piu' scontrosa, piu' dura, dove non ci sono molti turisti e sopratutto dove non vivono di turismo.
Se dovessi mai venire a vivere in Messico sceglierei certamente un posto sul mare al sud, lungo la costa del Pacifico o nel Caribe, ma credo che il Messico piu' vero stia molto piu' a nord, con gli stivali di pelle e I cappelli da cowboys, l'atmosfera a volte pesante della vicinissima guerra al narcotraffico, dove sono piu' ricchi ma anche piu' colti che al sud.
E in fondo, superato il primo impatto, anche piu' curiosi, e piu' disposti a conversare con uno straniero che non e' solo un portafoglio pieno di valuta estera.

XILITLA

A Xilitla, che e' un piccolo paese in montagna, con una bellissima piazza e bei panorami, vado sopratutto per andare a vedere quello che viene chiamato il giardino surrealista, o il labirinto surrealista, di Edward James.
Multimilionario inglese, Edward James fu appassionato, amico e sponsor dei pittori surrealisti, sopratutto di Dali' e di Magritte, che lo uso' anche come soggetto in due quadri.
Trovo' a Xilitla il posto magico in cui iniziare la costruzione, durata piu' di 30 anni, di qualcosa che a prima vista appare soltanto sconcertante.
La prima cosa che penso quando entro nel sito e': "ma peeercheeee'?"
I sentieri sono fiancheggiati da statue di cobra che si sfiorano, davanti all'ingresso c'e' una costruzione a spirale che sembra senza fine, non finita e infinita allo stesso tempo, e tutto attorno solo la giungla enorme e il rumore delle cascate.
Il posto e' chiamato Las Pozas perche' l'acqua che scende a valle crea all'interno della foresta delle piscine d'acqua in cui si puo' fare il bagno.
Il retro del biglietto d'ingresso dice in buono stile burocratico che si puo' andare dappertutto ma se si cade, si muore o si scompare non ci sara' un ufficio reclami.
In mezzo a una cascata James ha fatto costruire delle sculture, e mi chiedo dove abbia trovato e quanto li abbia pagati gli operai messicani che con l'acqua alla vita costruivano delle colonne che non sostengono niente, dei gigli in cemento e una scultura che si riempie d'acqua cristallina e che ricorda una lampada di Aladino.
Il sito dal 2007 e' protetto e teoricamente si sta pensando a come conservarlo ma una gran parte di Laz Pozas se la sta riprendendo la giungla.
Dappertutto, oltre I sentieri puliti, si vedono strutture, piccoli edifici, scalinate impossibili, steli improbabili, archi finissimi, e allora capisco che e' sbagliato fermarsi alla bizzarria, sono davanti a un sogno lontanissimo, uno di quei sogni che immagino sia bellissimo sognare.
In questa giungla ci sono semplicemente genio e follia dappertutto, e in uno di quei rari casi in cui si assomigliano, si fondono, e creano lo straordinario.
Ci sono scale che non si possono salire, ponti larghi appena un uomo e senza nessun tipo di ringhiera, colonne che sembrano girare su se stesse e poi scomparire, piattaforme da cui sembra che una volta saliti non sia piu' possibile scendere.
E attorno un oceano di verde e di piante che arrivano molto al di la' del cielo.

E insomma, signore e signori, ecco a voi Edward James, milionario, sognatore e poeta:

I have seen such beauty as one man has seldom seen;
therefore will I be grateful to die in this little room,
surrounded by the forests, the great green gloom
of trees my only gloom - and the sound, the sound of green.
Here amid the warmth of the rain, what might have been
is resolved into the tenderness of a tall doom
who says: 'You did your best, rest' - and after you the bloom
of what you loved and planted still will whisper what you mean.
And the ghosts of the birds I loved, will attend me each a friend;
like them shall I have flown beyond the realm of words.
You, through the trees, shall hear them, long after the end
calling me beyond the river. For the cries of birds
continue, as - defended by the cortege of their wings -
my soul among strange silences yet sings.

SAN LUIS POTOSI'

Arrivo da Xilitla a San Luis attraverso la Huasteca, questa zona del Messico piena di cascate e che e' forse il panorama piu' verde che ho mai visto in vita mia.
E' uno spettacolo di verde acceso per quasi tutto il percorso, atrraverso colline, boschi e pianure, tutte verdi come solo il verde a volte sa essere.
Vicino a San Luis compaiono I primi cactus ma anche loro sono cresciuti sull'erba e si mischiano con gli alberi e I cespugli, come se fossero delle avanguardie che timidamente cercano di non farsi notare.

Anche San Luis e' una citta' splendida, con le sue magnifiche piazze, un'enorme centro storico e palazzi antichi un po' dappertutto.
Una citta' da camminare, piena di cantine, ristoranti ottimi, gente cordiale e una folla che il week end e' un muro nelle strade pedonali.
Il Messico mi ha riservato ovviamente moltissime sorprese ma una lista delle cose da vedere ce l'avevo con me quando sono partito.
Nella lista c'erano pure gli squali balena che ho comunque saputo perdere pur stando un mese e mezzo nel Caribe, vabbe'.
Ormai mi mancava una cosa soltanto e pensavo che me la sarei persa: las peleas de gallos.
I combattimenti di galli sono molto diffusi in alcune zone del Messico, anche se e' permesso farli solo nelle fiere, le fiestas e altri avvenimenti particolari.
Ovviamente il paese e' pieno di combattimenti clandestini ma per un turista non sono esattamente a portata di mano.
Il destino vuole che in questi giorni ci sia la Feria Potosina, un'enorme fiera regionale di ristoranti, vendita di bestiame, alcolici, macchine, stranezze, dove si tengono concerti e al Palenque, un grande capannone con qualche velleita' architettonica, si fanno combattere I galli.
E il sabato sera sto giusto su un taxi che va verso la fiera, con l'autista che mi chiede che cosa io intendo per America.
Gli dico che conosco piu' o meno la geografia delle Americhe ma devo confessargli che molti in Europa, se non quasi tutti, per America intendono gli Stati Uniti.
("Ci hanno rubato persino il nome", dice Galeano ne Le Vene Aperte dell'America Latina).
Pochi ma ce ne sono, credono che il Messico sia in sudamerica, come se tutto il centroamerica (Guatemala, Salvador, Honduras, Nicaragua ecc.) semplicemente non esistesse.
Dopo un giro per la fiera, in cui sorrido ogni 3 metri per la follia messicana che spunta da ogni cosa, bevo due Indio aspettando davanti al Palenque che apra la biglietteria.
In fila ci sono alcune ragazze, che poi scopriro' esserre li' per comprare I biglietti del concerto di domani, e dietro di me 3 uomini che sembra siano cowboys da millenni.
Parlano dei combattimenti dei galli del giorno prima, con una conoscenza della cosa che mi rendo conto a me e' totalmente mancante.
Nel Palenque, le gradinate che circondano l'arena sono praticamente vuote.
Scopro che il combattimento dei galli non e' uno spettacolo (inutile dire che sono l'unico spaesato straniero) ma e' un mondo fatto esclusivamente di usanze antiche e maschili, di alcolici forti e di scommesse.
Non si viene a vedere combattere I galli, si viene a scommettere sui galli che combattono.
L'arena e' tonda con al centro un ring quadrato, diviso in quadrati piu' piccoli da strisce bianche, ci sono due squadre, o diciamo due allenatori di galli che si sfidano e ai quali viene affidato un colore (si scommette sul verde o sul rosso, in pratica).
I galli, snelli, nati per combattere, vengono pesati e poi gli si mostra il nemico, tenendoli per la coda.
L'istinto del gallo, appena vede l'avversario, e' quello di caricare, in un duello senza quartiere.
C'e' chi fa combattere il gallo, e chi si occupa della preparazione.
Al gallo vengono stirate le zampe e scrocchiate le dita, come farebbe un massaggiatore con un atleta.
E poi, religiosamente quasi, gli si monta su una zampa la navaja.
Le navajas, conservate in bauletti dai cassetti rivestiti di velluto, sono degli artigli affilatissimi a forma di falce, che permettono ai galli di uccidersi l'un l'altro a volte anche in pochi secondi.
Il primo combattimento dura in realta' alcuni minuti, sento alcuni alle mie spalle commentare come fossero a una partita di calcio, e capisco che vedono molte piu' cose di quelle che vedo io.
Per me quando I galli vengono lasciati liberi sono due macchie scure che saltano uno contro l'altro, velocissimi e a volte letali.
Azzardo qualche domanda ma I tre signori che ho alle spalle, che si passano una bottiglia di whisky di seconda scelta e tengono in mano rotoli di banconote mi fanno capire che mentre scommettono una quantita' di soldi insensata su qualcosa di cosi' poco prevedibilie, non hanno anche tempo di spiegare I segreti del combattimento dei galli a un turista con una macchina fotografica in mano.
Le linee bianche dell'arena si sporcano di sangue, a volte un gallo resta immobile
a terra mentre l'altro cerca di beccargli gli occhi, e allora l'arbitro dice "tiempo!" ed e' permesso riprendere I galli e lanciarli di nuovo uno contro l'altro.
I galli sembra che combatterebbero per sempre, anche quando sono sfiniti, stremati e sanguinanti.
In questa occasione (e' una delle poche regole che credo non mi sfugga) e' anche possibile cambiare la navaja durante il combattimento, perche' magari il filo della lama e' peggiorato, o la punta si e' spezzata.
A quel punto l'arbitro passa nel ring ed infila le navajas che gli erano state consegnate in precedenza, nell'orecchio di chi tiene in mano I galli, come una sigaretta.
I galli vengono tenuti svegli e reattivi spruzzandogli (sputandogli in pratica) sulla faccia acqua, o a volte anche whisky.
Alcune ferite che si infliggono con la navaja sono praticamente mortali, come alla gola e , se ricordo bene quanto dice Cacucci, anche sotto l'ala, dove corre un'arteria che se tagliata dissangua il gallo in pochi secondi.
I combattimenti vanno avanti, finche' uno dei galli evidentemente non e' piu' in grado di combattere.
Il quarto combattimento e' molto rapido, e quando un gallo rimane fermo nel sangue e nella sabbia e l'arbitro dice "tiempo!", il suo allenatore lo prende in braccio e gli pizzica la testa, che gli ricade senza forza sul palmo della mano.
Il gallo e' morto, e chi l'ha cresciuto sembra guardare il suo avversario e dirgli:
"questo me l'hai ammazzato, dove vuoi che vada?"
A quel punto, ho probabilmente visto abbastanza.
Il combattimento dei galli e' affascinante, barbaro e crudele ma non lo definirei divertente.
Esco nella sera di San Luis.
Il giorno dopo imparo che la parola Bistrot deriva dalla storpiatura della parola russa che significa "rapido", ai tempi in cui I soldati russi in Francia chiedevano di mangiare qualcosa in fretta.
E poi lascio anche San Luis Potosi', una citta' davvero magnifica.

REAL DE CATORCE

Quando arrivo a Real de Catorce, attraversando con un autobus basso il tunnel Ogarrio, antico accesso minerario alla citta', non ne rimango particolarmente affascinato.
E' il week end e il paese e' pieno di turisti messicani e di pellegrini, che vengono a visitare la Chiesa di San Francesco di Assisi, che oltre ad essere amico degli animali, qui fa circa un miracolo al mese.
Non mi sembra assolutamente la citta' fantasma che e' stata abbandonata per secoli e solo da qualche decennio sta cercando di riprendere vita.
Qui ai tempi degli spagnoli, tutto ruotava attorno alle miniere scavate nelle montagne circostanti.
Per ragioni non chiare ma quasi certamente legate all'improvviso abbassarsi del prezzo dell'argento, tutto fu abbandonato e lasciato andare in rovina.
Ora mi sembra la dimostrazione di come se si cerca il silenzio in Messico non si debba mai andare in un posto piccolo e sperduto, perche' messicanamente il frastuono sara' solo piu' concentrato e sara' quasi impossibile sfuggirgli.
Non e' possibile dormire a Real de Catorce non circondati da cani che latrano notti intere, musica a volume unico, galli, muli, campane, grida, lavori in corso effettuati rigorosamente con un martello, apparentemente unico strumento di lavoro concesso al manovale messicano.
Ho ancora un po' di tempo ma non piu' cosi' tanto, e non voglio allontanarmi troppo di nuovo da Citta' del Messico.
La mia prima impressione di Real de catorce e' che ci staro' al massimo due giorni e poi andro' a vedere uno strano parco naturale di piscine nel deserto un po' piu' a nord, in un posto chiamato Quatrociniegas.

In realta', come imparero' fortunatamente nei giorni che verranno, se a Real de Catorce si va oltre le due strade piene di ristoranti e venditori di artesania e paccottiglia religiosa, e magari non ci si sta solo un fine settimana, di magia ce n' e' ancora parecchia.
Basta camminare qualche chilometro in qualsiasi direzione, e il paesaggio di montagne, rocce e cactus si apre a un silenzio che a volte sembra interminabile.
Sui sentieri di sabbia e sassi non c'e' nessuno, escluso qualcuno che a cavallo o su un mulo riporta a casa la famiglia o va in citta' a giocare a baseball, passione (recente, a quanto ho capito) di tutti gli abitanti di queste parti, che hanno trasformato da un giorno all'altro il campo da calcio in un diamante.
Sulle montagne che circondano Real de Catorce, da dove si vede in basso il deserto, in un paesaggio che sembra spargere energia dappertutto, mescolare vita dappertutto, la magia e' ancora intatta.
"Ti sei mai annoiato?" mi ha chiesto un italiano che passava di qui per un paio di giorni.
"Sono molto bravo a non fare niente", gli ho detto sinceramente.
Alan, persona molto interessante che vive qui da qualche anno, appassionato di archeoastronomia, arriva a chiamarla "contemplazione", uno stato della mente fortunato e spesso incompreso.
Io non arrivo a tanto ma e' indubbio che a volte cammino per ore, mentre altre le passo con un churro guardando le montagne, o seduto all'ombra di un'antica miniera, con gli occhi che vanno lontano sulla valle, e attorno a me un silenzio e una solitudine che sono molto simili alla pace.
Solo le mosche di solito, mi ricordano che la perfezione non esiste.
Un giorno cammino sulle montagne dopo il cimitero di Real, incontrando soltanto nessuno e tagliando lungo il sentiero un tuna, uno dei dolcissimi frutti commestibili dei cactus messicani, e prendo una strada che doveva portare al deserto e poi e' stata interrotta.
La strada finisce contro una montagna, sotto di me c'e' il deserto largo, con grandi parti in ombra dove evidentemente sta piovendo.
Mentre resto immobile a guardare arriva un colibri', che centrifugando l'aria con le sue ali minuscole resta anche lui immobile per qualche secondo davanti a me.
Poi scivola via attraverso la valle, come se perforasse l'aria e il vento e lo spazio intero.

Eccomi a bere in una cantina, Indio a prezzo di costo e liberta' di fumare, ci vuole pochissimo a trascinarmi a un tavolo di questi tempi.
Dopo poco entra Alfonso.
"Oggi ti ho visto che camminavi sulla collina," mi dice "tu non mi hai sentito mentre cantavo un mantra?"
Alfonso e' di Barcellona ma viene qui da anni, e sta finendo di costruire una casa a Cordoba, in Argentina.
A prima vista puo' sembrare un hippy che e' rimasto dentro alla mistica delle religioni ma e' un giudizio che dopo pochi minuti si rivela totalmente sbagliato.
Ci offriamo qualche birra a vicenda (questo e' il Messico, d'altronde) e poi andiamo con una Indio da litro a casa sua.
Vive temporaneamente nella splendida casa di una famiglia di svizzeri, costruita sulla valle, con una milpa (un campo in cui si coltiva mais, fagioli eccetera) e una piscina d'acqua naturale in cui e' tragicamente annegato qualche anno fa uno dei loro figli.
"Andiamo a bere qui, vieni" mi dice dopo che mi ha mostrato la casa e il magnifico giardino di cactus e piante., da cui si vede la valle e la strada che porta in basso, verso il deserto, a Estacion Catorce.
Mi fa entrare in una piccola stanza che e' un piccolo tempio dedicato al Tutto.
Alle pareti ci sono quadri huichol e frecce degli indiani americani, rappresentazioni di dei indiani e foto del dalai lama.
In una nicchia, statue della Madonna, Buddha, foto di Maestri orientali, fiori, oggetti rituali, incensi.
Un posto favoloso, in cui c'e' pure un divano.
"Buddhismo, Induismo..sono solo etichette" dice Alfonso mentre mi racconta che ha passato anni in un monastero in Nepal, e studiato Zen 3 anni in Giappone e 3 negli USA.
"Negli Stati Uniti passavo ore a schiena diritta accanto a un giovane della famiglia Rockfeller", mi dice sorridendo.
Gli ho detto che non sono ancora stato nel deserto e allora mi fa assaggiare un piccolo pezzo di peyote, la prima volta che ne sento il sapore.
E' peyote rosso, non so come ce l'abbia, perche' e' considerato molto raro, e si dice che solo I piu' puri o gli huicholes incontrino il peyote rosso.
(uno scettico qui direbbe che glli huicholes, raccogliendone sacchi interi, hanno piu' possibilita').
"Quindi credi a una vita dopo la morte?" gli chiedo
"Una? Moltissime.Mi parli di Darwin e ti capisco, ma vedi?" risponde indicando il pavimento
"Darwin ha capito e descritto benissimo questa mattonella ma ha completamente ignorato tutte le altre."
Alfonso non e' un asceta, beve e fuma come me, e forse e' per questo che ci troviamo cosi' bene.
"Mucho humo" mi chiamavano gli huicholes", dice, e quando gli chiedo mi spiega che nel monastero Zen giapponese la disciplina era molto stretta e il Maestro usava il bastone ma non gli importava nulla di come uno si vestiva o se aveva I capelli corti o lunghi.
A breve verra' a Real de Catorce un maestro di Dzog Chen, un modo di vedere le cose, che viene dal buddismo tibetano, che Alfonso considera molto vicino.
Dzog Chen significa "Grande Perfezione".
"E' una via, non ti dice cosa devi fare, ti insegna solo un cammino, ti fa solo vedere come raggiungere certe cose, la consapevolezza e la conoscenza.
Ti da' gli strumenti ma la fatica e' tutta tua."
"Conosci Osho?" mi chiede
Lo conosco da quando sono stato in india, anche se non in modo approfondito.
E' la seconda volta che lo incontro in questo viaggio pero'.
"Beh", continua Alfonso "uno degli obiettivi di un seguace e' quello di diventare come il Maestro, ma Osho collezionava Rolls Royce, non era cosi' facile diventare come lui."
E' questo che mi piace in Alfonso.
Alfonso e' al di la' della superficie freak che si trova in un sacco di persone, fatta di Buddha Bar e di charas (ha anche smesso da anni di fumare erba), di yoga per dimagrire, abiti indiani e new age.
Alfonso e' in cammino da moltissimo tempo, e sta andando verso la luce, o almeno cosi' crede.
Si puo' credere a tutto o credere a niente ma e' molto piu' sereno, felice e consapevole di un enorme numero di persone.
E non e' assolutamente fuori dal mondo, sembra soltanto spremergli la parte buona e lasciare che il veleno scivoli via.
E anche se la sua via non credo sara' mai la mia, I suoi giorni sembrano essere piu' pieni, piu' luminosi e belli da essere vissuti di quelli di molti altri.


12.08.2010

HÌKURI

Vicente, la mia guida, mi fa salire su Coyote, il suo cavallo, mentre lui ne ha preso in prestito uno piccolo e giovane, perche' nel deserto non puo' accompagnarmi a piedi.E' troppo lontano, e la strada del ritorno troppo ripida.
La strada che scende da Real de Catorce e' splendida, difficile e magica, percorsa da trasporti pubblici fatti con vecchie e quasi indistruttibili jeep inglesi, chiamate Willys e dipinte in improbabili colori pastello.
Quando siamo quasi a meta' strada, un serpente ci attraversa la strada.
Io, turisticamente impegnato a guardare la strana bellezza del paesaggio, quasi non lo vedo.
Vicente scende subito da cavallo e lo stordisce gettandogli una pietra, poi lo finisce colpendolo alla testa con luna fionda.
La sua mira da pochi metri con la fionda e' impressionante, sono tutti centri alla testa del coralillo, un serpente color deserto con delle macchie arancioni, estremamente velenoso.
Vicente ammazza sempre tutti I serpenti che incontra, una volta e' stato morso e sono pericolosi per I cavalli.
Qualche giorno fa ha ammazzato, sempre con la fionda, un grande cascavel dalle parti di casa sua.
Da quanto si dice, qui e' pieno di cascavel, cioe' di serpenti a sonagli.
Alfonso dice che quando li incontra gioca col sonaglio
"Mai quelli piccoli pero'.Assolutamente mai.La distanza tra la testa e la coda e' troppo corta, sono cosi' rapidi che non potrei mai togliere la mano senza essere morso."
I cascavel, notizie non verificate lo ammetto, hanno due tipi di veleni, che usano a seconda dei casi.Il loro veleno puo' contenere una neurotossina, che tende a colpire I nervi e a paralizzare, e un'altra tossina che invece detta alla buona scioglie il sangue e ti provoca emorragie una dopo l'altra.
Quando il serpente caccia li usa entrambi, perche' vuole immobilizzare la preda e sentirla morire.
Quando morde gli uomini, in fondo solo per difendersi o perche' spaventato, non usa quasi mai il veleno paralizzante perche' per lui non siamo prede.
Non e' abbastanza grande per mangiare un essere umano.
Da queste parti la soluzione per quando ti morde un serpente a sonagli, per quanto abbia in letto in rete che e' pericolosamente sbagliata (ma chissa') e' ancora quella della frontiera western hollywoodiana: incidere la ferita con un coltello, succhiare e sputare il sangue, legare stretto e correre in ospedale.
Ma in rete si dice che succhiare il sangue infetto del veleno del serpente e quindi rischiare di trasmetterlo attraverso la saliva a tutto il corpo sia assolutamente da non fare. Non saprei, essere morso da un serpente non e' effettivamente in cima alle cose che vorrei provare prima di morire.
Mentre bevevamo una birra in un bar Alfonso mi ha detto che quando era nel monastero in Nepal, il maestro gli diceva che se trovavano serpenti lungo il sentiero dovevano prenderli e gettarli lontano.
"No no no" gli ha detto Manuel, messicano rasta vestito con una tuta da operaio marrone e un cappello tibetano, che fa splendidi coltelli che mi dice vanno a ruba tra I cacciatori.
"Tirare lontano un cascavel e' come trovare una mina nel terreno e invece che disinnescarla o farla esplodere, seppellirla da un'altra parte."

Quando arriviamo in basso, vedo che in realta' il paesaggio e' semidesertico, non un deserto vero e proprio.
Sia, dicono, per il cambiamento climatico, sia perche' nel deserto e' piovuto moltissimo, ci sono molte piante, e fiori, la terra e' grassa e sembra che abbia cercato di prendere vita da ogni goccia di pioggia.
Per questo, oltre al fatto che sono un totale principiante, il peyote non e' cosi' facile da trovare.
Vicente, abituato a portare qui I turisti, ne trova subito alcuni, sotto cespugli di fiori gialli e li vede anche quando sono all'aperto, quasi affondati e al livello del suolo.
Per me e' molto piu' difficile vederli, spuntano in questa parte di deserto davvero pochissimo, e hanno praticamente lo stesso colore della sabbia che li ricopre e li circonda.
Alla fine io ne trovo solo uno grande ma va bene cosi', il peyote sembra che non abbia niente in contrario al che lo incontri.
La storia che dovresti mangiare solo quello che ti trova sono giunto a considerarla un po' troppo freak, visto che I peyoteros huichol vanno a raccogliere il peyote in gruppi si' numerosi, ma poi tornano per distribuirlo e farlo consumare anche a tutti gli altri (I bambini credo comincino veso I 6 anni a prenderne piccole dosi per abituarsi) durante le cerimonie.
Lo raccolgo io anche, col coltello svizzero.
In rete si leggono molte cose e si sentono molte voci, tra cui quella che il peyote stia finendo e per questo gli indigeni (sopratutto gli indiani americani in realta') detestino I turisti che vanno a raccoglierlo.
E' vero, sopratutto dove lo raccolgono gli indiani americani, che il peyote e' molto diminuito ed e' anche vero che e' colpa dei turisti.
Ma gli indiani non ce l'hanno con chi raccoglie il peyote, ce l'hanno con chi lo raccoglie male, tagliandolo inutilmente troppo in profondita' e impedendogli quindi di ricrescere, o con chi raccoglie anche I peyote piccolissimi.
Gli indiani americani dicono, come credo tutti quelli a cui e' permesso consumare il peyote per scopi cerimoniali, che il peyote non e' di nessuno.
Appartiene alla terra e a chiunque lo trova.

Il peyote e' una specie di tubero, che espone all'esterno il cactus commestibile, diviso in spicchi il cui numero varia a seconda della grandezza.
Ma alla fine cio' che conta e' il ciclo di rinascita della pianta (bisogna raccoglierne il frutto, non uccidere l'albero, metaforicamente), e dopo aver scavato un po' attorno al bottone, il peyote lo si taglia quasi a livello del suolo con una lama affilata, o meglio come mi dicono fanno gli huicholes, con una pietra tagliente, perche' non si dovrebbe puntare un coltello contro gli spiriti della terra.
Tanto la parte che era piu' in profondita' la si buttera' comunque via, non c'e' nessun bisogno di scavare tanto, si mangia solo quello che si vede, o quasi.
Poi lo si lava, per pulirlo dalla polvere, gli si tagliano via le piccole spine morbide e il ciuffo di peli centrale.
Le spine direi contengano stricnina, non in dose mortale forse ma certamente un regalo di cui il nostro fegato puo' fare a meno,
Lo si spezza in spicchi e si comincia a masticarli.
Come mi aveva gia' fatto scoprire Alfonso, e' il sapore piu' inesplicabilmente amaro che chiunque possa aver assaggiato.
E quello che non tutti sanno e' che le dosi non sono piccole.
I frutti del peyote sono chiamati bottoni, e ce ne sono di varie misure, da meno di un centimetro di diametro a vari centimetri.
Un viaggio importante vorrebbe (ovviamente la quantita' di mescalina e' ignota, alcuni ne contengono piu' di altri, indipendentemente dalla grandezza)piu' o meno otto bottoni.
Gli sciamani Huichol, a caccia di cervi e di visioni di semina e di pioggia, ne mangiano quattordici o piu'.
Hìkuri, lo chiamano, nella loro antica e incomprensibile lingua che sembra venire da un tempo in cui tutto quello che conosciamo non c'era, e non avevamo ancora dimenticato come sentirci in comunione con la natura e col mondo che ci circonda.
Io, fidandomi di quanto mi ha detto Alfonso ed essendo la prima volta, ne mangio quattro, facendo il conto tra grandi e piccoli.
Gli ultimi spicchi li mando giu' con un po' di succo di mango, ma ci vuole ben altro per far dimenticare al palato l'amaro del peyote.
L'effetto comincia con una sensazione strana vicina alla nausea (puo' farti anche vomitare, perche' purifica il corpo prima di purificare la mente) e di rallentamento, almeno nel mio caso.
Comincio a camminare ma cammino molto piano, seguo il sentiero di sassi per un po' e poi entro nel deserto.
Non faccio chilometri, anche perche' come ho gia' visto quando raccoglievamo il peyote, nel deserto dove e' piovuto molto e dove il cambiamento climatico mi sembra in effetti evidente, ci sono anche piccoli alberi, piante e cactus abbastanza alti ed e' quindi semplicissimo perdersi e non sapere piu' da dove diavolo si sia venuti.
Sento delle vampate di benessere, e mi viene la pelle d'oca, e seduto su una pietra guardo quanta vita c'e' nel deserto.
E' solo piu' in basso.
Milioni di cespugli di piccole margherite, su cui le api vengono a posarsi, e fiori lilla microscopici nelle cui campane scompaiono moscerini ancora piu' piccoli.
E mosche, il deserto e' il regno delle mosche, ed evidentemente ci sara' una ragione, anche se mi sfugge.
Ci sono triliardi di formiche e grandi scarabei neri, insetti stecco (ne ho salvato uno da Vicente che li uccide tutti perche' avvelenano I cavalli che li mangiano scambiandoli per quello con cui in effetti sono cosi' bravi a mimetizzarsi), piccoli camaleonti, e vedo una fantastica lucertola dalla coda per meta' azzurra lucente,
ed e' un animale che esiste davvero.
E poi ci vedo benissimo, come non ho mai visto con le lenti a contatto che indosso come al solito dal doppio del tempo consigliato, non ci provo e certamente faccio bene ma credo quasi che per la prima volta in vita mia, anche se solo per pochi minuti, ci vedrei benissimo anche se le lenti me le togliessi.
Mi sdraio nella terra ("dentro la terra", vorrei dire)di sassi e polvere e spine, e mi viene naturale abbracciarmi, cosa che non faccio mai.
Quando piu' tardi diro' a Vicente che mi ero sdraiato, lui ha subito fatto il gesto di abbracciarsi, dicendo che e' una cosa naturale: concentri l'energia del deserto e impedisci che si disperda.
E' allora che le mosche, come gia' quando presi I funghi dall'effetto blando a San Jose' del Pacifico, smettono di molestarmi.
Il peyote non mi da' visioni (anche se ne parleremo in seguito), e se accettiamo il fatto che possieda uno spirito proprio, il peyote ignora le richieste insensate che gli avevo fatto prima di mangiarlo, e sceglie di darmi quello di cui ho probabilmente piu' bisogno, il miglior regalo.
Mi svuota totalmente la mente.
Me la pulisce, capiro' giorni dopo.
Sdraiato nel semideserto che circonda Real de Catorce, dove la vita nasce sulle pietre e tutto sembra fatto di spine, la mia mente e' completamente vuota.
Un'esperienza, anche se puo' dare adito a battute di vario genere, per me completamente nuova.
E' come se tutto andasse fuori, e allora capisco perche' dicono che il peyote serve anche a pulirti
(E mi viene in mente che Lawrence d'Arabia a chi gli chiedeva cosa ci trovasse di cosi' affascinante nel deserto, rispondeva: "E' pulito.").
Improvvisamente, un grosso cane nero di chissa' chi passa correndo nascosto dai cespugli lungo il sentiero.
Il rumore elettrico delle ali delle mosche mi sveglia e mi dice che il cosiddetto viaggio interiore e' finito.
E mi stupisco, anche se lo avevo letto, che in questa ultima fase il peyote mi faccia stare benissimo, lucidissimo e carico come una molla.
Il down del peyote e' benessere, volgarmente assomiglia all'effetto che ricordo dell'extasy, e la cosa che piu' mi colpisce e' che dura anche I giorni successivi.
Certo, bisognerebbe forse provare a prenderlo e poi ripartire il giorno dopo per correre a lavorare in un ufficio di Citta' del Messico, ma per me che rimango a Real de Catorce il down del peyote sono giorni in cui I pensieri bui che mi erano venuti per la vicinanza del ritorno non sono facili da scacciare, sono semplicemente scomparsi.
"Tutto bene?" mi chiede Vicente quando torno dove si stanno riposando I cavalli.
"Benissimo." gli rispondo - "Di chi era quel cane nero?"
E allora Vicente mi dice che non era passato nessun grande cane nero.
Penso che voglia prendermi in giro, ma mi ripete che quella e' l'unica strada e non ha visto nessun cane nero.
Solo uno magro e bianco, che in effetti compare subito dopo.
Ora, possiamo interpretare la cosa in molti modi, dal peyote che teneva lontano la mia parte oscura e liberava il veleno del mio spirito nel deserto sotto forma di animale, o piu' semplicemente che un grande cane nero e' passato da qualche parte e Vicente non l'ha visto.
Non sono cosi' mistico, e propendo per la seconda ipotesi.
Per quanto la verita' non la sapro' mai e non sia nemmeno importante, resta il fatto che io sono fottutamente sicuro che un grosso cane nero stava correndo per il sentiero nel deserto , tra I cactus e I cespugli, andando dove qualcun altro avrebbe altrettanto certamente visto un cane nero.

Al ritorno ci fermiamo al Socavon della Purissima, la vecchia miniera dove fondevano l'argento e di cui e' rimasta intatta l'altissima ciminiera, decorata alla base con arabeschi che sembrano quasi orientali.
"Vuoi fermarti alla miniera?" mi chiede Vicente
"No, un'altra volta", gli rispondo
"E invece ci fermiamo, perche' I cavalli devono riposare."
Ed e' un'ottima idea, qui davvero sembra di essere un paese fantasma, ci abita solo la famiglia del guardiano, che probabilmente ha la stessa eta' delle montagne.
Dall'entrata dell'antica miniera esce con mia sorpresa un forte vento gelido, e in un edificio diroccato Vicente mi mostra come l'umidita' abbia disegnato sul muro la faccia di una bambina che, dice la leggenda macabra, e' stata uccisa all'interno qualche secolo fa.
Scettico e occidentale entro nell'edificio pericolante per guardare meglio:
da vicino e' solo una macchia scura su un muro che il tempo ha incenerito ma da lontano assume effettivamente le sembianze del viso di una bambina disperata e triste, che e' certamente protagonista di un horror nell'alto dei cieli.
Da li' ormai manca poco, anche se e' la parte piu' faticosa per I cavalli, per arrivare a Real, dove scendo da cavallo e sento le gambe che mi tremano, e il corpo che mi ricorda che non e' esattamente mia abitudine passare giornate in sella scendendo e scalando montagne.
Quando spezzato ordino un espresso in un bar, il padrone svizzero non riesce a non guardarmi sorridendo.
Due ore dopo, guardandomi finalmente nello specchio di un ristorante, vedo che la mia faccia, nonostante il cappello da mercenario in vacanza che qui dopo 8 mesi sono stato costretto a comprare, e' dello stesso colore delle mie braccia, cioe' lava che brucia.
E capisco che lo svizzero avrebbe voluto farmi una domanda sola: "Ehi amico, come si sta sul sole?"

HìKURI 2

Qualche giorno dopo torno nel deserto in macchina, per passarci la notte, con Massimo, italiano che vive da anni in Messico e in centroamerica.
Lungo la strada ci fermiamo ogni volta che vediamo un po' di legna che ci servira' per accendere Il fuoco, e la carichiamo sul retro del pickup.
Andiamo molto piu' giu' di dove ero stato con Vicente, ci fermiamo prima in un posto a cercare un po' ma non troviamo nulla.
Il terreno non e' adatto, e non vediamo nemmeno uno dei cactus cugini del peyote, piu' grandi e velenosi e a forma di stella, che quasi sempre pero' indicano che nelle vicinanze c'e' anche il peyote.
Ci spostiamo dentro il deserto, si sta facendo tardi, e ci mettiamo a cercare, ormai senza convinzione.
"Non fa niente, dormmiamo qui e lo cerchiamo domattina", dice Massimo
Ma finalmente, sotto un cespuglio di fiori gialli come mi ha insegnato Vicente, ne trovo 3, due piccoli e uno grande.
"Non ci posso credere, nell'ora del potere." dice Massimo citando Castaneda, mentre il tramonto ammorbidisce I colori del deserto e sbiadisce il cielo.
Massimo sparge semi che ha con se' attorno al peyote, accende un incenso e ringrazia a parole e con della musica gli spiriti della terra.
Io raccolgo I 3 bottoni, stavolta con una pietra affilata a forma di falce che avevo giusto trovato poco prima, e lascio una moneta come ringraziamento dove taglio il peyote piu' grande.
Pulisco I bottoni e li lavo attorno al fuoco che Massimo e' bravissimo a tenere vivo, e cominciamo lentamente a mangiarli a spicchi.
Capisco che la prima volta che l'ho preso l'avevo preso nel modo sbagliato.
Tutto il piu' velocemente possibile, come una droga che prendi e poi non devi fare altro che aspettare che ti salga o che ti perda.
In realta' il peyote e' meglio mangiarlo lentamente, aspettando che altrettanto lentamente abbia cura di te.
Mi sembra anche che parlare di dosi sia privo di significato.
Ci sara' sempre differenza tra prenderne 2 o prenderne 14, alla fine la mescalina e' un composto chimico, ma la reazione e' cosi' diversa da persona a persona, e mi sembra anche da occasione o occasione che parlare di dosi fisse mi sembra assurdo.
Non sto parlando di spiriti della terra, di ritmo del pianeta, di empatia o di mistica, cerco solo di dire a parole quanto l'hikuri sia una pianta davvero speciale.
Chiacchieriamo attorno al fuoco, in mezzo al deserto, mentre mastichiamo amaro e guardiamo la notte che diventa padrona del mondo.
"Anni fa, insieme a uno svizzero", mi racconta Massimo, "abbiamo camminato per un giorno e mezzo senza trovare nemmeno un peyote.Alla sera ci siamo fermati a dormire in una pensione piena di pulci e non so perche' ho sollevato il materasso.Sotto, appoggiati sulla rete, probabilmente a seccare, ci saranno stati 100 bottoni.
Ma non li ho presi, perche' non li avevo trovati io.
Quando ho raccontato la storia a uno sciamano huichol non la smetteva piu' di ridere.
"E non credi che l'hìkuri avesse voluto trovarti?" mi ha detto, e rideva , rideva."
Ci mettiamo a camminare, la luna sembra semplicemente crescere a vista d'occhio, come se dovesse diventare piena in un paio d'ore.
Ci fermiamo a guardare il cielo e ci guardiamo l'un l'altro.
Non e' strano che tutte le nuvole, nessuna esclusa, assumano forme di animali o di oggetti riconoscibili, questo in fondo capita spesso.
Quello che e' strano, e che ci lascia perplessi entrambi, e' che si muovano indubbiamente a scatti.
Ci ridiamo sopra, ma quando mi torna in mente il giorno dopo, con un'idea hippy penso che forse, senza rendercene conto, stavamo guardando il battito del cielo.

Quando la luna scompare, il deserto mette in mostra le stelle, che sono piu' di quante se ne possano contare.
E cadono, cadono, come in questo periodo fanno dappertutto attorno alla terra, esplodendo nel buio sopra il deserto.
Verso le 5 del mattino (il peyote tiene assolutamente svegli, gli huicholes ne prendono uno quando vogliono camminare o danzare tutta la notte), la legna raccolta durante il giorno finisce, e il freddo glaciale del vento del deserto ci costringe a salire in macchina aspettando l'alba, che arriva colorando di rosa e accendendo di vita le colline di cactus e cespugli, riempiendo di rumori e di colori il paesaggio di cui durante la notte mi era sembrato molto semplicemente di fare parte.

Quando torno dal deserto incontro la splendida signora che gestisce l'hotel dove ho preso una stanza appena arrivato.
Le avevo chiesto in prestito una coperta e mi dice che avrei dovuto prenderne due, guardandomi con lo sguardo che negli anni deve esserle diventato comune, quello di chi vede l'ennesimo adulto bambino che torna dal deserto con un sorriso gigante che sembra non si possa spegnere.

Prima di andarmene regalo a Massimo il disegno che ho fatto sulle nuvole (un altro l'ho dato a un fotografo che voleva scambiarlo con una foto.Era molto bella ma troppo grande perche' potessi portarla a casa senza distruggerla).
A Vicente, la mia prima strana guida per il peyote, regalo un cavallo.
Non sono diventato Briatore, probabilmente comprera' un cavallo giovane che non diventera' tanto alto, adatto per portare a spasso I turisti, al deserto, o al Wirikuta, El Quemado, la montagna sacra degli huicholes, dove ha portato anche me.
E qui un cavallo del genere costa 250 dollari.
O forse usera' I soldi per aggiustare casa, o li spendera' tutti in una cantina, chi lo sa.
Non l'ho fatto per lui, l'ho fatto per me.

 

E via.
E' finita.
Scrivo da Citta' del Messico bevendo le ultime Leon e contando di mangiare gli ultimi tacos al pastor.
I bilanci di questo viaggio si vedranno al ritorno, e nel tempo, come sempre.
Posso solo dire che in questi mesi ho disegnato tutto quello che non avevo disegnato negli ultimi dieci anni ("dove sono stati tutti questi segni fino ad ora?", mi sono chiesto spesso), per i miei standard incontrato un' infinita' di persone, di cui una buona parte molto interessanti, e respirato polvere, buio, sole, musica e Messico.
Sono rimasto senza fiato davanti alle meraviglie e in silenzio davanti alle cose che non capivo.
47 posti e 56 letti diversi, un magnifico viaggio.
Se ho voglia dopo nove mesi di tornare a casa?
Se penso a casa mia, con un autolavaggio sotto la finestra, un vicino malato di mente innamorato dei compressori e un maledetto prete fanatico che suona le campane a un volume immorale, certamente no.
Se penso a quello che la casa e', certo che ho voglia di tornare a casa.
D'altronde il problema non e' mai quanta voglia si ha di tornare a casa, ma quanto tempo si e' capaci di restarci senza guardare negli occhi una valigia.

"Life is what happens to you while you're busy making other plans"- John Lennon

A presto
bye


8.San Cristobal, Campeche, Isla Mujeres, Tulum, Holbox <<